Vita davanti alle fornacelle
Patrimonio immateriale
“I comignoli fumavano tutti. L’odore delle patate fritte con i peperoni sott’aceto, dei ceci e fagioli che bollivano in pentole di terracotta panciute e rossicce, di pizza re granurinio con le frittole cotta nei tegami di rame con fuoco sotto e sopra, si spandeva dappertutto. Ad Oscata nessuno faceva colazione con il caffé o con il latte. Per combattere il freddo ci voleva roba sostanziosa. A noi ragazzini non si disdegnava qualche bicchiere di vino.
Le ore di luce erano poche. In un batti baleno si piombava nel buio più assoluto. Non c’era ancora la luce elettrica. Quelle serate tanto lunghe erano molto attese da noi bambini. Ci riunivamo in circolo intorno al focolare per carpire un po’ di calore. Zio Salvatore era pronto a raccontare li cunti. Era molto bravo. Mimava tutti i particolari recitando a soggetto. Raccontava, raccontava fino a quando nella sua bocca non c’era più saliva. Ormai le parole venivano spinte fuori solo dalla voglia di tenerci svegli e non buttarci così presto nelle braccia di Morfeo. Tutti tenevamo le ginocchia serrate a stretto contatto. I miei gomiti perforavano quasi le sue ginocchia. Decine e decine di scarponi chiodati venivano disposti a circolo intorno allo smorto fuocherello. E quando non c’era più posto iniziavano le liti. Per quanto spingessimo proprio non si trovava un piccolo spazio vuoto per tutti quegli scarponi. Mio zio acchiappava lu iataturo[1], di metallo o di legno e, toccando ad una ad una la punta delle scarpe, iniziava la solita filastrocca: “Pis, pis pisilli, fiori di cannilla, cannilla e culusì, culusì sant’Martì, tira picchiò, tira picchiò tira lu pére a te”. L’ultimo piede toccato doveva essere tirato via.”