Ritualità del pane
Patrimonio immateriale
“Alla periferia del paese i fornai ammassavano la puia di cereali (la iosca), insieme alla paglia, a forma di piramide (la meta) ed essa serviva per riscaldare e portare alla giusta temperatura il forno per un anno. Sul pavimento del forno a paglia vi era un’apertura, chiamata, lu’ mbierno, in cui a volte precipitava qualche panella.
Ogni famiglia contrassegnava il proprio pane con un marchio (lu merco) per renderlo facilmente riconoscibile tra tutte le panelle portate al forno. Si usava il tumbagno, che poteva essere quadrato o rettangolare, a seconda se serviva per schianà (impastare, riducendo a panelle da infornare) o per trasportare, sul capo le schenate (le panelle) fino al forno, dove dopo essere lievitate una seconda volta, quando avevano fatt’ faccia, venivano cotte. Lu cingulo, un piccolo tocco di pasta fresca, di forma cilindrica, cotto vicino al fuoco, ne verificava la lievitazione, che era dovuta al lievito madre (lu crescend’). Se lievitava troppo, il pane era scresscendato. Era ascemo, se senza lievito. La panella che si regalava al fornaio per barattare la cottura del pane era detta lu pezziddo. Quella “mosca e ammaccata”, tutta col pomodoro, con la cipolla, ‘re granurino (di mais) o ripiena era la pezzedda. Era consuetudine, per una donna, tornando a casa dal forno col cesto sulla testa, invitare i conoscenti che incontrava per strada ad assaggiare il pane caldo. La risposta bene augurante all’offerta era sempre: Lassa cresce! A fine giornata, lu munnelo, lunga asta di legno munita di straccio ad un’estremità, serviva per munnelà, ossia per ripulire il piano di lavoro del forno. Ai bambini veniva raccontato che la fornaia, sempre molto indaffarata a corto di acqua, per ripulire il piano del forno bagnasse lu munnelo nella pipì e così spesso rifiutavano la crosta di base del pane gridando: io nun boglio, quero andù piscia la furnara!”.