Arti locali
Patrimonio immateriale
“Le scarse scorte alimentari dovevano spesso bastare anche a rifocillare gli accappanti (gli imbucati) che si fermavano lì durante l’anno. In quel piccolo rifugio c’era un via vai di persone dove si sperimentava il valore autentico dell’ospitalità. Durante l’anno passava più volte “ lu sanapurcelle”, il castratore di maiali. D’inverno sostava per qualche giorno “lu sc’ardalana”, l’artigiano addetto alla cardatura della lana con la quale si confezionavano le calze, le maglie e altro. Per qualche settimana si sistemava “ “Minicuccio lu scarpar” che, con suola, salvapunti e spago, realizzava le scarpe con i chiodi per tutta la famiglia. Egli aveva un accentuato difetto di pronuncia. Amava raccontare storie ed era il passatempo di tutti. Appena gli veniva chiesto di confezionare le scarpe, la sua domanda di rito era: “Tu cum r vuoie l’attacc a r capp, a la vlacè o a ciapp e buttu?” (Tu come la vuoi l’allacciatura alle scarpe, alla francese oppure con i ganci che si abbottonano con le stringhe?). Questa famiglia era capace di vivere con dignità l’allegra pulita povertà. Quanto più si rasentava la condizione dell’indigenza tanto più assumeva valore la convivialità. Il momento di sedersi a tavola con gli ospiti si tramutava in un vero e proprio rito che si esprimeva attraverso la gioia di stare insieme e di raccontarsi. Ci si sedeva a tavola non tanto per mangiare e bere le poche cose disponibili, ma per consumare il piacere del contatto umano.”